Videosorveglianza: regole, obblighi e rischi per privati, condomini e aziende

Introduzione – Telecamere ovunque, ma non sempre lecite

Negli ultimi anni la videosorveglianza è diventata parte integrante della nostra vita quotidiana. Telecamere a circuito chiuso o collegate a sistemi intelligenti compaiono ormai nei condomini, nelle aziende, nei negozi e nelle abitazioni private.

Le motivazioni sono chiare: aumentare la sicurezza, prevenire furti, scoraggiare atti vandalici o semplicemente avere la sensazione di un maggiore controllo sul proprio ambiente.

Ma dietro questa corsa alla “protezione elettronica” si nasconde un rischio che pochi conoscono: installare una telecamera non significa automaticamente essere in regola con la normativa. Al contrario, un impianto non conforme può trasformarsi in una fonte di guai seri: sanzioni economiche elevate, impossibilità di usare le immagini come prova, contestazioni da parte di vicini, inquilini o dipendenti.

Per capire perché è così, è fondamentale partire dalla cornice normativa.

Il GDPR e le altre regole da conoscere

Dal 2018 in Europa è in vigore il Regolamento (UE) 2016/679, meglio conosciuto come GDPR (General Data Protection Regulation). Si tratta della normativa che disciplina il trattamento dei dati personali, cioè tutte quelle informazioni che permettono di identificare una persona fisica direttamente o indirettamente.

Tra questi dati rientrano anche le immagini captate da una telecamera, indipendentemente dalla loro effettiva registrazione e successiva conservazione.

Il principio cardine del GDPR è che ogni trattamento deve essere lecito, proporzionato e trasparente, e deve sempre rispettare i diritti e le libertà delle persone coinvolte.

Questo vale anche quando l’obiettivo è la sicurezza: tutelare il patrimonio non può quindi tradursi in una sorveglianza indiscriminata.

Chi decide di installare un sistema di videosorveglianza, dunque, defindone le modalità di funzionamento e le finalità, ha l’obbligo di garantire, e poter dimostrare, la conformità del trattamento di dati eseguito mediante i dispositivi (principio di accountability).

Accanto al GDPR, in Italia entrano in gioco altre regole:

  • lo Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970), che limita fortemente l’uso di telecamere nei luoghi di lavoro per proteggere la dignità dei lavoratori;
  • il Codice Civile, che disciplina le decisioni assembleari e i rapporti tra condomini (artt. 1122-ter e 1136 c.c.);
  • i provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali e le linee guida europee (EDPB), che chiariscono casi pratici e forniscono criteri interpretativi.

Con questa cornice in mente, possiamo affrontare i diversi scenari in cui la videosorveglianza viene utilizzata: uso privato, condomini e aziende.

Quando il GDPR non si applica: l’uso privato e domestico

Molti pensano che il GDPR si applichi sempre e comunque, ma non è così.

La normativa prevede delle eccezioni precise: una delle più importanti riguarda le persone fisiche che usano la videosorveglianza per fini esclusivamente personali o domestici.

Facciamo un esempio concreto.

Un cittadino installa una telecamera sopra la porta di casa per controllare chi suona al campanello, oppure nel cortile privato per sorvegliare la bicicletta del figlio. In casi come questi, generalmente non si applicano gli obblighi del GDPR: niente registro dei trattamenti, niente valutazione d’impatto, niente informative.

L’uso è strettamente privato, e la legge lo riconosce.

Questa eccezione, prevista dall’art. 2, par. 2, lett. c) GDPR, ha però confini molto precisi.
Non appena la telecamera esce da questi limiti, il regime cambia radicalmente.

I limiti da rispettare
  • Ambito esclusivamente domestico: la telecamera deve asservire solo alla protezione della proprietà privata riferibile alla persona fisica, senza che vi sia un collegamento con un’attività professionale o commerciale. Quindi, se ad esempio la telecamera è installata in un bed & breakfast, o presso un’abitazione utilizzata anche come studio professionale, il GDPR si applica integralmente.
  • Pertinenze esclusive: le riprese devono riguardare solo zone di esclusiva pertinenza. Non si possono inquadrare androni, cortili comuni, pianerottoli o strade pubbliche.
  • Nessuna diffusione a terzi: le immagini non devono essere comunicate o pubblicate, ad esempio sui social o tramite sistemi che condividono in tempo reale i video con altri soggetti.
  • Servitù di passaggio: se la telecamera riprende un vialetto o un’area sulla quale altri hanno diritto di transitare, è indispensabile ottenere – una tantum – il consenso scritto dei titolari di tale diritto.

È chiaro che, al venir meno di anche solo una di tale condizioni, l’esclusione decade, e il privato deve rispettare gli stessi adempimenti richiesti a condomini e aziende.

La videosorveglianza in condominio

Le telecamere dei singoli condomini: margini e divieti

Un caso molto frequente è quello del singolo condomino che decide di installare una telecamera davanti alla porta di casa, sopra il garage o vicino al posto auto. In linea di principio ciò è consentito, ma a condizioni ben precise.

La regola fondamentale è che la telecamera possa riprendere solo ed esclusivamente le pertinenze del privato che decide di installarla: l’ingresso della propria abitazione, un box o un cortile ad uso esclusivo. Non è mai lecito, invece, inquadrare zone comuni (come pianerottoli, scale, cortili condivisi) né pertinenze altrui.

C’è poi un aspetto civilistico da non dimenticare: se un condomino installa la telecamera fissandola su parti comuni (pareti, colonne, muri perimetrali), l’art. 1102 c.c. impone di darne comunicazione all’amministratore e rispettare i limiti sull’uso delle cose comuni. In caso contrario, gli altri condomini possono contestare l’impianto e chiederne la rimozione.

Quanto al GDPR, valgono le stesse regole viste per i privati: se la telecamera è usata per fini esclusivamente personali e domestici, l’uso resta escluso dal Regolamento. Ma se ad installarla è un’attività professionale o commerciale, il GDPR si applica integralmente.

Le telecamere sulle parti comuni: la decisione dell’assemblea

Quando a installare l’impianto è il condominio in qualità di ente di gestione, il percorso cambia.

Qui entra in gioco l’art. 1122-ter c.c., che richiede una delibera assembleare approvata con il quorum previsto dall’art. 1136 c.c.: la maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno un terzo del valore dell’edificio.

L’assemblea non decide soltanto se installare le telecamere, ma anche perché e come: quali aree inquadrare (androne, cortile, parcheggi), per quali finalità (sicurezza, tutela del patrimonio comune, prevenzione vandalismi), e per quanto tempo conservare le immagini.

Senza delibera, ogni registrazione effettuata sulle parti comuni sarebbe illecita.

Ruoli e responsabilità privacy

Dal punto di vista della protezione dei dati, il titolare del trattamento è il condominio stesso, in quanto ente di gestione.

L’amministratore agisce come responsabile del trattamento (art. 28 GDPR) e deve essere nominato formalmente con un contratto che specifichi compiti, istruzioni e misure di sicurezza.

Altri soggetti che eventualmente visionano le immagini – ad esempio il custode o un condomino incaricato – devono essere autorizzati con specifiche istruzioni scritte (art. 29 GDPR).

Obblighi pratici per i condomini

Un impianto condominiale non può limitarsi all’installazione tecnica: richiede una gestione attenta della documentazione.

  • Tempi di conservazione: non oltre 7 giorni, salvo eccezioni motivate (ad esempio eventi criminosi), come chiarito dal Garante al punto 11 delle FAQ sulla videosorveglianza.
  • Informativa: cartelli ben visibili all’ingresso delle aree videosorvegliate, con rinvio a un’informativa estesa accessibile (art. 13 GDPR, Linee Guida EDPB 3/2019).
  • Base giuridica: in genere il legittimo interesse del condominio (art. 6, par. 1, lett. f) GDPR), che va motivato e documentato tramite una LIA – Legitimate Interest Assessment.
  • DPIA: ex art. 35 GDPR, obbligatoria in alcuni casi, come sorveglianza sistematica su larga scala o riprese che coinvolgono lavoratori (Provv. Garante 467/2018, allegato 1, punto 5).
  • Registro dei trattamenti: il condominio, in quanto titolare, e l’amministratore, in quanto responsabile, devono entrambi mantenerlo aggiornato (art. 30 GDPR).
  • Nomina dei responsabili esterni: i trattamenti eseguiti da amministratore, installatori, manutentori e istituti di vigilanza devono essere disciplinati con contratti conformi all’art. 28 GDPR.
  • Istruzione ai soggetti autorizzati: anche i soggetti autorizzati alla visione delle immagini – ad esempio il custode, il portiere o un condomino incaricato – devono essere formalmente istruiti e designati per iscritto. Non basta dire “puoi guardare le telecamere”: occorre un atto scritto, che specifichi limiti e responsabilità, come richiesto dall’art. 29 GDPR e dall’art. 2-quaterdecies del Codice Privacy (Dlgs 196/2003 come novellato dal Dlgs 101/2018.)
Il controllo a distanza dei lavoratori

Un aspetto spesso trascurato riguarda i condomini con dipendenti: portieri, custodi, addetti alle pulizie.

In questi casi, l’installazione di telecamere tocca anche l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, che vieta controlli a distanza senza preventiva autorizzazione sindacale (RSA/RSU) o, in mancanza, autorizzazione preventiva dell’Ispettorato del Lavoro.

La norma è severa: anche se la telecamera non è puntata direttamente sul lavoratore, ma può comunque riprenderlo nello svolgimento delle mansioni, l’autorizzazione è necessaria.

La violazione comporta sanzioni penali (art. 171 d.lgs. 196/2003), oltre alle sanzioni amministrative già previste dal GDPR (art. 83, fino a un massimo di 20 milioni di euro o, per le imprese, 4% del fatturato globale annuo precedente), nonché possibile inutilizzabilità delle immagini.

La videosorveglianza nelle aziende

Se in condominio le regole sono complesse, nel mondo aziendale lo sono ancora di più. Qui, infatti, la videosorveglianza non incide solo sulla tutela del patrimonio, ma anche – e soprattutto – sui rapporti di lavoro. Le telecamere possono rappresentare un controllo indiretto o potenziale sull’attività dei dipendenti, e per questo motivo la legge italiana ha posto vincoli molto severi.

Il doppio binario: Statuto dei Lavoratori e GDPR

Per un’azienda che vuole installare telecamere nei luoghi di lavoro, il percorso è sempre duplice: da un lato bisogna rispettare lo Statuto dei Lavoratori, dall’altro il GDPR.

L’art. 4 della Legge n. 300/1970 stabilisce che non è possibile installare impianti dai quali possa derivare un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori senza un titolo autorizzativo.

Questo titolo può assumere due forme:

  • un accordo sindacale con le rappresentanze interne (RSA o RSU), se presenti;
  • in mancanza, una specifica autorizzazione preventiva dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro.

L’autorizzazione, inoltre, può essere concessa soltanto se l’impianto persegue una o più delle tre finalità legittime individuate dalla norma:

  • tutela del patrimonio aziendale (es. telecamere in magazzino o in prossimità delle casse per prevenire furti o danneggiamenti);
  • sicurezza del lavoro (es. telecamere in un reparto produttivo per monitorare situazioni potenzialmente pericolose e garantire interventi tempestivi in caso di incidenti);
  • esigenze organizzative e produttive (es. telecamere in un’area di carico/scarico merci per ottimizzare i flussi e la logistica).

La regola è molto ampia: non conta solo se la telecamera è puntata direttamente sul lavoratore, ma anche se può inquadrarlo “di riflesso” mentre svolge le sue mansioni. Senza autorizzazione, l’impianto è illecito e si configura sanzionabilità.

Ottenuto l’accordo o l’autorizzazione, scatta il secondo binario: il rispetto del GDPR. Questo significa garantire informazione trasparente (cartelli e informative estese), mantenere un registro dei trattamenti, redigere una DPIA (obbligatoria per la videosorveglianza nei luoghi di lavoro, come chiarito dal Garante nel già citato Provv. n. 467/2018), valutare la proporzionalità tramite una LIA (Legitimate Interest Assessment), designare i responsabili esterni (es. installatori, manutentori, istituti di vigilanza) e nominare formalmente i dipendenti autorizzati alla visione delle immagini.

In altre parole: non basta chiedere il permesso, serve anche dimostrare – con documentazione concreta – che l’impianto è gestito in conformità ai principi di liceità, minimizzazione e sicurezza.

Le conseguenze della non conformità

Molte aziende sottovalutano questi adempimenti, pensando che basti appendere un cartello all’ingresso. Non è così.

Le conseguenze della non conformità possono essere pesantissime:

  • sanzioni economiche fino a 20 milioni di euro o al 4% del fatturato annuo globale (art. 83 GDPR);
  • sanzioni penali previste dall’art. 171 del Codice Privacy, che punisce chi viola le regole dello Statuto dei Lavoratori;
  • inutilizzabilità delle immagini: riprese ottenute in violazione delle regole potrebbero essere ritenute inutilizzabili, né come prove in giudizio né per giustificare provvedimenti disciplinari;
  • contestazioni sindacali e reclami al Garante o all’Ispettorato, con il rischio di ispezioni, sospensione dell’impianto e ulteriori provvedimenti.

Non è raro che un’azienda, convinta di avere “le prove” di una condotta scorretta di un dipendente, si ritrovi invece con un nulla di fatto: immagini inutilizzabili e un procedimento disciplinare che rischia di ritorcersi contro.

Conclusione – Dalla telecamera alla responsabilità

La videosorveglianza è uno strumento prezioso: rassicura, tutela il patrimonio, previene comportamenti illeciti.

Ma è anche, e soprattutto, un trattamento di dati personali. Ogni immagine registrata racconta un frammento della vita di qualcuno, e per questo la legge pretende che venga gestita con rispetto e responsabilità.

Nei privati, il confine è semplice: finché l’uso è domestico e personale, il GDPR non si applica. Ma basta oltrepassare quel limite – un’attività commerciale, una ripresa di aree comuni o pubbliche – perché si entri nel regime pieno delle regole europee.

Nei condomini, la materia si complica: servono delibere valide, informative chiare, tempi di conservazione limitati e una gestione rigorosa dei ruoli privacy. E se ci sono dipendenti, non si può prescindere dalle procedure dello Statuto dei Lavoratori.

Nelle aziende, infine, il binario è doppio: senza accordo sindacale o autorizzazione ispettiva l’impianto è illecito, e senza adempimenti GDPR la gestione è carente. Le sanzioni possono essere pesanti, ma ancora più grave è la possibile perdita di efficacia delle immagini, che diventano inutilizzabili proprio quando servono di più.

La verità è che installare telecamere non è mai un atto da prendere alla leggera, poiché significa assumersi la responsabilità di trattare dati personali e di farlo nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone.

Un impianto conforme non è solo tecnologia: è un equilibrio tra sicurezza, legalità e fiducia.

Ed è proprio questo equilibrio che fa la differenza tra un sistema che protegge davvero e uno che, al contrario, espone a rischi ancora maggiori.

di Stefano Aroldi, Consulente privacy (www.leonidasconsulenze.it)

Von

TAGS

Eine Antwort zu „Videosorveglianza: regole, obblighi e rischi per privati, condomini e aziende“

  1. […] Hier geht es zur Originalversion seines Artikels auf Italienisch: Videosorveglianza: regole, obblighi e rischi per privati, condomini e aziende – italien inside […]

Schreibe einen Kommentar

Deine E-Mail-Adresse wird nicht veröffentlicht. Erforderliche Felder sind mit * markiert

Diese Website verwendet Akismet, um Spam zu reduzieren. Erfahre, wie deine Kommentardaten verarbeitet werden.

neueste artikel


Themen

Arbeiten in Italien (6) Auswanderer-Portrait (7) Homeschooling (8) Immobilienkauf (8) INPS (9) Kindergeld (4) Rezension (10) Scheinselbständigkeit (4) Schulsystem (4) Unschooling (4)

Kommentare

Wenn wir Dir mit unseren Infos weiterhelfen konnten, freuen wir uns!
… und auch über eine kleine Spende